T1 - Theodor Adorno, La standardizzazione della popular music

PAROLA D’AUTORE

|⇒ T1  Theodor Adorno

La standardizzazione della popular music

Nella sua critica all’industria culturale, elaborata insieme a Max Horkheimer, Adorno sviluppa una riflessione sulla popular music, definita anche come “musica leggera” o “pop”. Egli evidenzia come essa, soprattutto se vista in contrapposizione alla musica classica, appaia spesso ripetitiva e basata su modelli musicali standardizzati e come, inoltre, sia realizzata con il principale obiettivo di scalare le classifiche di vendita.

La popular music […] viene abitualmente caratterizzata nei termini della sua differenza dalla musica seria. Questa differenza, generalmente data per scontata, è concepita come una differenza di livelli considerati tanto ben definiti da potersi giudicare i valori in essi racchiusi come assolutamente indipendenti gli uni dagli altri. […] Ad un giudizio chiaro circa la relazione tra la musica seria e quella popular si può arrivare solo prestando specifica attenzione alla caratteristica fondamentale di quest’ultima: la standardizzazione […].
La standardizzazione strutturale mira a reazioni standardizzate. L’ascolto della musica popular consapevolmente trasformato, non solo dai suoi promotori ma per così dire dalla natura intrinseca di questa stessa musica, in un sistema di meccanismi reattivi totalmente antagonistici all’ideale di individualità in una società libera e liberale. […]
La composizione ascolta per conto dell’ascoltatore. Questo è come la popular music spoglia l’ascoltatore della sua spontaneità e promuove riflessi condizionati. Non solo non gli chiede lo sforzo di seguire il suo flusso concreto, ma gli offre effettivamente gli stessi modelli entro cui ciò che di concreto ancora rimane possa ricondursi. La costruzione schematica detta le condizioni a cui egli deve ascoltare mentre, allo stesso tempo, rende inutile ogni sforzo nell’ascolto. La musica popular è “predigerita” in un modo che ricorda da vicino la moda dei digests del materiale a stampa. È questa struttura della popular music contemporanea ciò che in ultima analisi spiega quei cambiamenti nelle abitudini di ascolto che dovremo discutere più avanti. […]
L’imitazione offre uno spunto per arrivare a comprendere queste ragioni. Gli standard musicali della popular music sono stati originariamente sviluppati da un processo competitivo. Quando una particolare canzone otteneva un grande successo, centinaia di altre prendevano ad imitarla. I pezzi di maggior successo, i loro tipi e le “proporzioni” tra singoli elementi in esse racchiuse, furono così imitati, e il processo è culminato nella cristallizzazione di standard. In condizioni centralizzate come quelle che esistono oggi questi standard si sono “congelati”. Vale a dire, sono stati fatti propri dai cartelli, l’esito finale di un processo competitivo, e rigidamente applicati su materiale da promuovere.
La non accettazione delle regole del gioco è divenuta la base per l’esclusione. I modelli originali che sono adesso standardizzati si sono sviluppati in un processo più o meno competitivo. La concentrazione economica su larga scala ha istituzionalizzato la standardizzazione, rendendola d’obbligo.
Come risultato, le innovazioni di individui poco ossequiosi sono state messe al bando. Ai modelli standard è stata concessa l’immunità della grandezza: “il re non può sbagliare”. È questo che spiega tra l’altro le riprese di vecchi pezzi nella popular music. Questi non hanno ancora il carattere trito di prodotti standardizzati costruiti sulla base di un qualche modello. Il respiro di una libera competizione è in essi ancora vivo. D’altra parte, i vecchi pezzi di successo che vengono riportati in vita definiscono i modelli che sono divenuti standard. Essi rappresentano l’età dell’oro delle regole del gioco.

Rispondi

1. A che cosa è contrapposta la musica popular secondo Adorno?
2. Che cosa significa che la popular music è “predigerita”?

 >> pagina 169 

|⇒ T2  Herbert Marcuse

Lo Stato del benessere

In questo brano Herbert Marcuse sottolinea che la società o Stato del benessere mette a disposizione dei cittadini una serie di vantaggi e comfort materiali, ma a discapito delle libertà individuali. Se, dunque, lo Stato offre ai cittadini tutta una serie di servizi e beni materiali che ne migliorano l’esistenza, perché mai – si chiede Marcuse – i cittadini dovrebbero essere motivati a chiedere dei cambiamenti in vista di una maggiore autonomia di pensiero?

La tarda società industriale ha accresciuto piuttosto che ridotto il bisogno di funzioni parassitarie ed alienate (per l’insieme della società se non per l’individuo). La pubblicità, le relazioni pubbliche, l’indottrinamento, l’obsolescenza pianificata non rappresentano più spese generali improduttive ma sono piuttosto elementi dei costi base di produzione. Al fine di essere efficace, tale produzione di spreco socialmente necessario richiede una continua razionalizzazione, ossia l’impiego incessante di tecniche avanzate e di conoscenze scientifiche.
Ne segue che un sempre più elevato tenore di vita è il sottoprodotto quasi inevitabile della società industriale manipolata politicamente, una volta che un certo livello di arretratezza sia stato superato. La crescente produttività del lavoro crea una sempre più ampia eccedenza di prodotto il quale, sia esso appropriato e distribuito dai privati o dal centro, permette un aumento dei consumi ad onta delle diversioni sempre più marcate imposte alla produttività.
Fintanto che prevale questa combinazione, essa riduce il valore d’uso della libertà; non v’è alcuna ragione di insistere sulla autodeterminazione quando la vita amministrata è cosi confortevole, è anzi la «buona» vita. È questo il terreno razionale e materiale su cui si fonda l’unificazione degli opposti, il comportamento politico unidimensionale. Su questo terreno le forze politiche trascendenti che esistono entro la società sono bloccate, ed un mutamento qualitativo appare possibile soltanto come mutamento proveniente dall’esterno.
Respingere lo Stato del benessere a favore di un’idea astratta della libertà è cosa che convince poco. La perdita delle libertà economiche e politiche che furono le vere conquiste dei due secoli precedenti può sembrare un danno da poco in uno stato capace di rendere sicura e confortevole la vita amministrata. Se gli individui sono soddisfatti, al punto d’esser felici, dei beni e dei servizi loro offerti dall’amministrazione, perché mai dovrebbero insistere per avere istituzioni differenti capaci di produrre in modo differente beni e servizi differenti? E se gli individui sono precondizionati, di modo che i beni che li soddisfano includono pure pensieri, sentimenti, aspirazioni, perché mai dovrebbero voler pensare, sentire, ed esercitare l’immaginazione da soli?

Rispondi

1. Qual è il giudizio di Marcuse sul consumo?
2. Che cosa produce la società del benessere sulle libertà politiche secondo Marcuse?

 >> pagina 170 

|⇒ T3  Robert Ezra Park e Ernest Watson Burgess

Le città

Park e Burgess sono stati tra i primi studiosi a puntare l’attenzione sulle implicazioni sociali dell’urbanizzazione e, in particolare, del modello di vita tipico delle città moderne. In questo brano essi mettono in luce che la città produce al proprio interno realtà frammentate e differenti tra loro e che, proprio per questo, la vita cittadina esercita attrazione e fascino particolari.

Le grandi città sono sempre state il crogiolo di razze e di culture; dalle intense e sottili inter-azioni, di cui hanno costituito il centro, sono sorte le razze e i tipi sociali più recenti.
Le metropoli degli Stati Uniti, per esempio, hanno tolto dall’isolamento dei loro villaggi nativi grandi masse delle popolazioni rurali dell’Europa e dell’America. Sotto la pressione dei nuovi contatti le energie latenti di queste popolazioni originarie si sono scatenate e i più sottili processi di inter-azione hanno prodotto non soltanto tipi professionali, ma anche tipi di temperamento. I trasporti e le comunicazioni hanno prodotto, tra molti altri mutamenti silenziosi ma di grande portata, ciò che ho chiamato la «mobilitazione dell’individuo». Essi hanno moltiplicato per l’individuo le possibilità di contatto e di associazione con i suoi simili, ma hanno reso questi contatti e queste associazioni più transitori e meno stabili. Gran parte degli abitanti delle grandi città, compresi coloro che risiedono in case popolari e in appartamenti, vivono come gli ospiti di certi grandi alberghi: si incontrano, ma non si conoscono tra loro. Da ciò consegue la sostituzione di relazioni fortuite e accidentali alle associazioni più intime e permanenti delle comunità minori.
In queste circostanze la posizione dell’individuo viene determinata in grado considerevole da simboli convenzionali, cioè dalla moda e dalla «facciata»; e l’arte della vita si riduce in larga misura a camminare sul filo del rasoio e allo studio scrupoloso dello stile e delle maniere. Non soltanto i trasporti e le comunicazioni, ma anche la separazione della popolazione urbana tendono ad agevolare la mobilità dell’individuo.
I processi di separazione creano distanze morali che trasformano la città in un mosaico di piccoli mondi che si toccano, ma non si compenetrano. Ciò consente agli individui di passare rapidamente e facilmente da un ambiente morale all’altro, e incoraggia l’affascinante ma pericoloso esperimento di vivere allo stesso tempo in mondi diversi contigui, e tuttavia fortemente separati. Tutto questo tende a conferire alla vita cittadina un carattere superficiale e casuale, a complicare le relazioni sociali e a produrre nuovi e divergenti tipi di individui. Nello stesso tempo, ciò introduce un elemento casuale e avventuroso che si aggiunge allo stimolo della vita cittadina, conferendole una particolare attrattiva per le giovani e fresche energie.
Il fascino delle grandi città è forse una conseguenza di stimoli che agiscono direttamente sui riflessi e – quale tipo di comportamento umano – può essere spiegato come una specie di tropismo, come l’attrazione della falena alla fiamma.
Tuttavia l’attrazione per la metropoli è dovuta, in parte, al fatto che a lungo andare ogni individuo trova, tra le varie manifestazioni della vita cittadina, il tipo di ambiente in cui può svilupparsi e sentirsi a proprio agio; in breve, egli trova il clima morale da cui la sua peculiare natura trae gli stimoli che conferiscono un’espressione completa e libera alle sue disposizioni innate. Si può ritenere che moventi di questo genere abbiano la loro radice non già nell’interesse e neppure nel sentimento, ma in qualcosa di più profondo e originario che spinge molti, se non la maggior parte dei giovani, uomini e donne, dalla sicurezza delle loro case di campagna alla grande confusione e all’esplosiva eccitazione della vita cittadina. In una piccola comunità l’uomo normale, l’uomo privo di eccentricità o di ingegno, sembra disporre di maggiori probabilità di successo. La piccola comunità spesso tollera l’eccentricità; la città, al contrario, la ricompensa. Nella piccola città il criminale, l’anormale e l’uomo d’ingegno non trovano quelle stesse possibilità di sviluppare le loro disposizioni innate, che essi trovano invariabilmente in una grande città.

Rispondi

1. Che cosa distingue, secondo gli autori, la vita della città da quella della campagna e della piccola comunità?
2. Perché gli individui più eccentrici trovano nella città un ambiente più adatto al loro carattere?

 >> pagina 172 

|⇒ T4  Erving Goffman

La ribalta e il retroscena

Uno dei tratti caratteristici della sociologia elaborata da Goffman è quello di utilizzare la metafora del teatro per descrivere l’interazione sociale: vi è una “ribalta” in cui le persone offrono una particolare rappresentazione pubblica di se stessi, e un “retroscena”, in cui invece ci si può rilassare ed essere se stessi. In questo breve estratto, l’autore descrive proprio alcune caratteristiche che in teatro differenziano la ribalta e il retroscena.

Se prendiamo in considerazione una particolare rappresentazione è talvolta utile servirsi del termine “ribalta” per indicare il luogo dove si svolge la rappresentazione. Abbiamo già accennato come l’equipaggiamento semantico fisso proprio di tale luogo costituisce quella parte della facciata che viene chiamata “scena”: osserveremo ora come certi aspetti della rappresentazione sembrino esser eseguiti non tanto per il pubblico quanto per la ribalta. La rappresentazione di un individuo sulla ribalta può esser considerata come un tentativo per mostrare che la sua attività entro quel territorio segue certe norme. […]
Quando si svolge un’attività in presenza di altre persone, l’espressione di alcuni aspetti viene accentuata, mentre altri aspetti che potrebbero screditare l’impressione voluta vengono soppressi. È chiaro che i fatti accentuati appaiono in quella che ho chiamato ribalta e dovrebbe essere altrettanto chiaro che ci può essere un altro territorio – chiamiamolo retroscena – dove fanno la loro comparsa i fatti che sono stati soppressi. Nei confronti di una data rappresentazione il retroscena può esser definito come il luogo dove l’impressione voluta dalla rappresentazione stessa è scientemente e sistematicamente negata. Le funzioni caratteristiche di tali luoghi sono naturalmente molte. È qui che viene faticosamente costruita la capacità di una rappresentazione a esprimere qualcosa che vada oltre se stessa; è qui che apertamente si creano illusioni e impressioni. È qui che si possono custodire arredi scenici e componenti della facciata personale in una specie di composizione smontabile di interi repertori di azioni e personaggi. Sempre qui si possono nascondere i diversi tipi di equipaggiamento disponibili per un dato cerimoniale, come i diversi tipi di liquore o di vestiario, cosi che il pubblico non possa paragonare il genere di trattamento che gli viene riservato con quello che avrebbe potuto ricevere. […] Qui l’attore può rilassarsi, abbandonare la sua facciata, smetter di recitare la sua parte e uscire dal suo ruolo.
In genere il retroscena di una rappresentazione si trova a un estremo del luogo dove è presentato lo spettacolo, ed è separato da questo da un divisorio e da un passaggio sorvegliato. In tal modo, essendo la ribalta e il retroscena adiacenti, un attore che si trovi sulla ribalta può ricevere assistenza dal retroscena durante lo svolgimento della rappresentazione e può momentaneamente interromperla per brevi periodi di distensione. In genere, naturalmente, il retroscena costituisce per l’attore un luogo sicuro nel senso che nessuno del pubblico può entrarvi.

Rispondi

1. Che cosa intende Goffman per ribalta? E per retroscena?
2. Immagina nella tua vita quotidiana una situazione che rappresenta per te una ribalta della tua vita sociale e una che, invece, costituisce un retroscena.

 >> pagina 173 

|⇒ T5  Howard Saul Becker

La devianza creata dalla società

Howard Becker ha concentrato parte del proprio lavoro per mettere in luce che le forme di devianza all’interno della società non dipendono dal fatto che certe azioni sono effettivamente sbagliate, ma che invece esistono delle norme sociali, prodotte dalla collettività e mutevoli nel corso del tempo, che servono proprio a permettere a una parte della società di attribuire l’etichetta di “deviante” ad alcuni dei propri membri.

L’interpretazione sociologica che ho appena discusso definisce la devianza come l’infrazione di una norma accettata. Cerca poi di individuare chi infrange le norme, e ricerca i fattori che, nelle loro personalità e nelle situazioni della loro vita, potrebbero spiegare il perché di quelle infrazioni. Ciò presuppone che coloro i quali hanno infranto una norma costituiscano una categoria omogenea, perché hanno commesso lo stesso atto deviante.
Mi sembra che un tale presupposto non tenga conto dell’aspetto centrale della devianza: essa è creata dalla società. Non voglio dire, come comunemente avviene, che le cause della devianza sono da individuarsi nella situazione sociale del deviante o in “fattori sociali” che suggeriscono la sua azione, ma voglio dire che i gruppi sociali creano la devianza istituendo norme la cui infrazione costituisce la devianza stessa, applicando quelle norme a determinate persone e attribuendo loro l’etichetta di outsiders. Da questo punto di vista, la devianza non è una qualità dell’atto commesso da una persona, ma piuttosto una conseguenza dell’applicazione, da parte di altri, di norme e di sanzioni nei confronti di un “colpevole”. Il deviante è una persona alla quale questa etichetta è stata applicata con successo; un comportamento deviante è un comportamento che la gente etichetta come tale.
Dal momento in cui la devianza è, tra le altre cose, una conseguenza della reazione degli altri nei confronti dell’atto di una persona, gli studiosi della devianza non possono partire dal presupposto che si occupano di una categoria omogenea quando studiano delle persone etichettate devianti. In altri termini, non possono presupporre che queste persone abbiano effettivamente commesso un atto deviante o infranto qualche norma, perché il processo dell’etichettare non è necessariamente infallibile; certe persone possono essere definite devianti mentre in realtà non hanno infranto nessuna norma. Inoltre, gli studiosi non possono presupporre che la categoria degli individui etichettati come devianti sia costituita da tutti quelli che effettivamente hanno infranto una norma, perché molti violatori possono non essere scoperti e non sono quindi inclusi nella popolazione di “devianti” che loro studiano. Finché la categoria manca di omogeneità e non include tutti i casi che ad essa appartengono, non si può pensare seriamente di trovare fattori comuni di personalità o di situazioni di vita che possano spiegare la presupposta devianza.
Cosa hanno, allora, in comune le persone definite devianti? Condividono perlomeno l’etichetta e l’esperienza di essere etichettati come outsiders.

Rispondi

1. Che cosa intende Becker per devianza?
2. Chi stabilisce, secondo Becker, chi è un deviante?

 >> pagina 174 

|⇒ T6  Alfred Schütz

Molteplici ordini di realtà

Il lavoro di Schütz si è concentrato nel comprendere che il mondo sociale si basa sulla possibilità che persone condividano un senso comune, ovvero un insieme di idee e significati dato per scontato nella loro vita quotidiana. In questo testo, riprendendo le idee del filosofo William James, egli mette in luce che esistono differenti ambiti sociali, caratterizzati da diverse forme di conoscenza, che possono essere considerati come delle realtà differenti e potenzialmente infinite.

“In quali circostanze consideriamo le cose reali?”: questa domanda sta in uno dei più notevoli capitoli dei Principi di psicologia di William James, il quale inizia da qui per sviluppare la sua teoria dei diversi ordini della realtà. James scopre che tutto ciò che è pensato in modo non contraddittorio viene ipso facto creduto, cioè inteso come assolutamente reale. E una cosa pensata può essere contraddetta da un’altra solo se l’una inizia la disputa affermando qualcosa che non è ammissibile per l’altra. Se si verifica questo caso, la mente deve fare una scelta.
Ogni proposizione – che si tratti di predicare un attributo o di affermare l’esistenza di qualcosa – viene creduta per il fatto stesso di essere concepita, a meno che non si scontri con altre proposizioni cui si presta fede contemporaneamente, e che si intendano riferite tutte agli stessi termini.
Sempre secondo William James, la distinzione tra reale e irreale, l’intera psicologia della credenza, dell’incredulità e del dubbio si basano su due fatti mentali: primo, che abbiamo la possibilità di pensare in modi diversi a proposito del medesimo oggetto; secondo, che quando lo abbiamo fatto possiamo scegliere a quale modo aderire e quale scartare. L’origine e la fonte di tutta la realtà, sia dal punto di vista assoluto che da quello pratico, è dunque soggettiva: siamo noi.
Di conseguenza, esistono molti diversi ordini di realtà – probabilmente un numero infinito – ciascuno con il suo stile di esistenza particolare e distinto: James li chiama “sotto-universi”. Fra di loro vi è il mondo dei sensi o delle “cose” fisiche, così come sono sperimentate dal senso comune; il mondo della scienza; il mondo delle relazioni ideali; quello degli “idoli della tribù”; i mondi soprannaturali come il Paradiso e l’Inferno dei cristiani; i numerosi mondi dell’opinione individuale; e i mondi della pura follia e della fantasia, anch’essi infinitamente numerosi.
Ogni oggetto cui pensiamo si riferisce ad almeno uno di questi mondi – o ad uno di una lista analoga. Ogni mondo, nel momento in cui vi si fa riferimento, è reale a proprio modo, ed ogni relazione con la nostra mente, se non vi è la presenza di una relazione più forte che la contrasti, è sufficiente a rendere un oggetto reale.

Rispondi

1. Prova a spiegare che cosa intende Schütz, basandosi sul lavoro di William James, quando parla di “sotto-universi” che costituiscono realtà sociali alternative.
2. Che cosa significa che esistono molteplici realtà e non solo una?
3. Soffermati a riflettere sulla tua esperienza quotidiana, provando a identificare due distinti ambiti della realtà in cui sembrano funzionare altrettanti differenti ordini di realtà, come li ha definiti Schütz, per esempio situazioni che condividi solo con i tuoi compagni e altre in cui sono i tuoi familiari le persone di riferimento. Prova a descrivere le differenze principali tra questi due ambiti.

 >> pagina 175 

|⇒ T7  Peter Ludwig Berger e Thomas Luckmann

La condivisione sociale della realtà

Berger e Luckmann si sono occupati di descrivere in che modo le persone e i gruppi sociali interagiscono, creando nel corso del tempo forme di conoscenze condivise, necessarie affinché si possa sviluppare una convivenza sociale ordinata. In questo brano i due autori mettono in rilievo che uno dei momenti principali in cui si inizia a costruire questa conoscenza condivisa è quando due persone si trovano a interagire faccia a faccia

La realtà della vita quotidiana è condivisa con altri. Ma in che modo si ha esperienza di questi altri nella vita quotidiana? Inoltre, è possibile distinguere tra diversi modi di tale esperienza. La più importante esperienza degli altri ha luogo nella situazione in cui ci si trova faccia a faccia, che costituisce il prototipo dell’interazione sociale. Tutti gli altri casi sono derivazioni di questo. Quando ci si incontra faccia a faccia i due soggetti interagenti sono uno di fronte all’altro. Il mio e il suo hit et nunc [ora e adesso] si scontrano continuamente l’uno con l’altro finché perdura la situazione dell’incontro diretto. Ne risulta un continuo interscambio della mia espressività e della sua. Lo vedo sorridere, poi reagire al mio viso accigliato smettendo di sorridere poi sorridere ancora quando io sorrido, e così via.
Ogni mia espressione è orientata verso di lui, e viceversa, e questa continua reciprocità di atti espressivi vale simultaneamente per ambedue. Questo significa che, quando ci si trova l’uno di fronte all’altro, la soggettività dell’altro mi è accessibile in maniera diretta anche se io posso fraintendere alcuni dei suoi atti. Posso pensare che l’altro stia sorridendo mentre di fatto sta solo affettando un sorriso. Nondimeno solo un rapporto personale diretto può mettere a contatto con la soggettività di ciascuno. Solo qui la soggettività dell’altro è spiccatamente «vicina». Tutte le altre forme di rapporto con l’altro sono, in vari gradi, «remote».
Nell’incontro diretto l’altro è pienamente reale. Questa realtà fa parte della realtà globale della vita quotidiana, e come tale è massiccia e indiscutibile. Certo, un altro può essere reale per me senza che io lo abbia mai incontrato di persona – per fama, per esempio, o per essere stato in corrispondenza con me; ciò nonostante, egli diviene reale per me nel più pieno senso della parola solo quando me lo trovo di fronte faccia a faccia. Anzi, si può dire che l’altro nell’incontro diretto è per me più reale di me stesso.

Rispondi

1. Perché sono importanti le relazioni faccia a faccia?
2. Tra due individui, che cosa distingue le relazioni “vicine” da quelle “remote”?

I colori della Sociologia
I colori della Sociologia
Secondo biennio e quinto anno del liceo delle Scienze umane